Ieri sera, quasi casualmente in auto, ho riascoltato “in quiete” dei CSI e ad un certo punto Ferretti ha annunciato l’esecuzione di una cover: “Lieve” dei marlene Kuntz. Le braccia alzate ed incrociate di Marco Patuzzi mi sono apparse nella mente quasi in automatico, le ho viste lì, protese, come se fossero parti inscindibili delle parole scritte da Cristiano Godano e recitate da Lindo Ferretti. A quanti di noi riesce di “oltrepassare in volo, in volo più in là” pensando che nella vita sia”meglio del perdersi in fondo all’ immobile, meglio di sentirsi forti nel labile”?. Quanti scelgono di credere in un’ arte, perseguendola come fosse “il bene più radioso che c’è”? Non credo sia un conteggio conveniente da fare tra noi comuni mortali, persi ad inseguire caotiche soluzioni ai tormenti quotidiani. Non credo nemmeno che sia conveniente fare altri tipi di conteggi, quelli legati a profitti o convenienze. Non credo, eppure a volte, qualche pazzo visionario, lo incontri: io ho incontrato Marco Patuzzi. Anzi, ad essere più corretto, ho incontrato le sue parole, asciutte, scarne, simboliche, e le movenze del suo corpo, proteso nell’esprimere in modo inconfutabilmente fisico, i pensieri racchiusi nelle liriche. Fin troppo facile catalogare Marco nella categoria dei “semplicemente pazzi”, forse può accadere a chi si accontenta di vederlo all’opera una sola volta, magari inseguendo esclusivamente le parole o i gesti consumati nell’arco di pochi minuti, ma non può sfuggire ad un attento osservatore la forza interpretativa delle sue performance. Le mani, gli sguardi, la postura, sono tutti strumenti al servizio di una poetica che non “spaccherebbe” così efficacemente se non diventasse anche carne, nervi, a volte urlo. Marco “in azione” non è più Marco, ma diventa la catarsi di sé stesso, diventa un artista alla ricerca del “bene più radioso che c’è”, si trasforma in un “convertitore” di emozioni a cui lo spettatore non può sfuggire. Se mi si chiede cosa mi colpisce più di questo particolare artista, non posso sfuggire alla tensione che mi provoca la posizione china, con una mano a terra, di inizio performance. Credo che molto di cosa Marco ci vuole dire si racchiuda in questa semplice postura. Prima di tutto, in modo silenzioso, Marco ci presenta un uomo, un animale del mondo a contatto con la sua terra. Un essere concentrato sui propri bisogni fondamentali e con lo sguardo fisso, basso. Ma la tensione dell’attesa annuncia il bisogno: la voglia, nel profondo, di esprimersi, di raccontare qualcosa che inevitabilmente abbia a che fare con il proprio essere dentro, con quella parte di noi che ci può elevare ad esseri superiori, pensanti. Quando poi, Marco, si alza in piedi lo fa trasformando il suo essere: si rappresenta pronto, diventa un uomo alla ricerca di come “oltrepassare in volo, in volo più in là”.
Stefano Zonta